I Sassi di Matera sono stati per secoli “lo specchio del cosmo”, come la nominavano i viaggiatori arabi quando la scorgevano di notte. Un “giardino di pietra” in cui era il sapere collettivo arcaico a governare il territorio e la città. Da questo punto di vista Matera è stata la prima vera smart-city, che, a guardare bene, dovrebbe proprio significare città in equilibrio con il territorio. I Sassi, chiusi nel 1952 e ripopolati solo ora da nuove generazioni ricordano alla memoria dell’uomo che il processo di rigenerazione e di valorizzazione di un luogo è possibile attraverso la conoscenza della storia e la cura della memoria delle tradizioni passate e della propria identità culturale.
E’ proprio attraverso il valore delle persone che è possibile dare un nuovo valore alla cultura. Perché il patrimonio principale di un territorio sono prima di tutto le persone, quelle che in quel territorio si identificano e lo vivono. Allora PROGETTARE CULTURA significa innanzitutto riuscire a creare valore dal dialogo e dal confronto tra generazioni diverse legate dalla stessa storia di origine e da tutte quelle tradizioni che riescono a identificare ogni comunità distinguendo l’una dall’altra.
L’esperienza vissuta a Matera in occasione della Giornata Nazionale “Matera Cultura Capitale. Raccontare la vita delle comunità attraverso il patrimonio”, organizzata nel dicembre 2019 dall’Ufficio Nazionale per i Beni Culturali Ecclesiastici e l’Edilizia di Culto della Conferenza Episcopale Italiana, ha messo al centro il tema della “narrazione” del patrimonio da parte delle comunità che abitano il territorio ponendo particolare attenzione al patrimonio immateriale.
Il patrimonio così detto “intangibile” costituisce un valore imprescindibile e ancora poco documentato della vita delle comunità ecclesiali, per il quale è opportuno e urgente promuovere iniziative di sensibilizzazione, consapevolezza e riappropriazione dell’identità e delle relazioni connesse.
Per cogliere davvero la Bellezza che il patrimonio culturale collettivo può offrire, particolarmente in Italia, è necessario prendere in considerazione i tre livelli di lettura di cui si compone: Arte, Spiritualità e Comunità.
Ricostruire un rapporto vivo con i beni religiosi è un atto d’amore verso l’uomo del nostro tempo, che nella bellezza ancora trova spazi di senso e di verità.
E’ proprio dal binomio “arte e fede”, e “cultura e sviluppo” che bisognerebbe ripartire per poter “comunicare” oggi un bene ecclesiastico e allo stesso modo individuare anche come raccontarlo ai visitatori provenienti da estrazioni culturali, territoriali, anagrafiche e religiose profondamente differenti.
Le diverse possibilità di comunicazione e di narrazione faranno sì che il luogo visitato possa trasformarsi in vera e propria esperienza “inclusiva”.
Bisognerà poter individuare una strategia comune per raccogliere e condividere prospettive per la conoscenza, la tutela e la valorizzazione del patrimonio religioso materiale e immateriale.
Interessante sottolineare come in questi ultimi anni le tematiche relative alla tutela e alla valorizzazione del patrimonio culturale di interesse religioso stanno assumendo sempre più rilievo all’interno del dibattito pubblico, nazionale e internazionale.
Con l’espressione “beni culturali di interesse religioso“, introdotta per la prima volta nell’ordinamento italiano dall’art. 12 dell’Accordo di modificazione del Concordato del 1984, si devono ricomprendere, secondo un’accezione ampia, non soltanto i beni culturali appartenenti agli enti ecclesiastici, ma anche tutti quei beni che, indipendentemente da chi ne sia il proprietario, risultano caratterizzati dalla compresenza di due interessi: uno culturale, tutelato dallo Stato, quali “testimonianze materiali aventi valore di civiltà”; l’altro religioso, tutelato dalla Chiesa, quali “documenti della propria tradizione e mezzi di promozione dell’uomo, ordinati al culto e alla carità”. Alla luce di questa definizione, oltre il 70% del patrimonio culturale italiano può dirsi ricompreso nell’espressione “beni culturali di interesse religioso”, percentuale nella quale si devono annoverare, tra l’altro, circa 85.000 chiese delle 100.000 stimate esistenti in Italia e oggetto di un censimento, tuttora in corso.
Si comprende, dunque, perché anche la questione del riuso degli edifici di culto, oggetto di un convegno internazionale promosso a Roma dal Pontificio Consiglio della Cultura, il 29-30 novembre 2018, sta assumendo sempre di più importanza.
A causa della crescente secolarizzazione, della diminuzione del numero dei sacerdoti e degli spostamenti della popolazione dai territori rurali verso le città, si può concretamente ipotizzare che, nell’arco di qualche decennio, una consistente parte del patrimonio ecclesiastico italiano risulterà sovrabbondante rispetto alle esigenze di culto e bisognevole di una nuova destinazione, che non sia l’incuria e l’abbandono.
Si tratta di una sfida che interessa allo stesso modo gli organi dello Stato e della Chiesa ma che potrà, se correttamente affrontata, secondo un approccio multidisciplinare e innovativo, costituire un volano per lo sviluppo culturale, sociale ed economico dei nostri territori e che se legato alla conoscenza del patrimonio immateriale può riassegnare l’unicità alle nostre comunità.
Architetto Caterina Parrello
Direttore Editoriale CHIESA OGGI