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L’architettura come “scrittura della luce”

S. Ecc. Mons, Bruno Forte, Arcivescovo di Chieti – Vasto

“L’architettura porta con sé l’idea del sacro”: queste parole di Mario Botta fanno comprendere come progettare e costruire un edificio sia sempre creare un ponte fra la terra e il cielo, quasi imitando nel frammento il gesto archetipico creatore del tutto.

È in una tale consapevolezza che si muove Botta, “archistar” progettista di straordinari luoghi del sacro: ed è per questo che le Sue architetture sacre risultano connaturali a chi desideri l’incontro con l’Altissimo e voglia dare espressione a questa profonda nostalgia dell’anima.

“In una società fragile – afferma Botta luoghi come questo hanno una carica simbolica molto più forte della loro azione tecnica e funzionale… Essi possono diventare dei nuovi cardini per riorganizzare una parte del tessuto che hanno intorno”.

È quanto è avvenuto con la costruzione della nuova Chiesa di San Rocco a Sambuceto (San Giovanni Teatino, Chieti, nell’Arcidiocesi a me affidata), da lui progettata con totale gratuità per l’amicizia che ci unisce e seguita con amore in ogni dettaglio: essa si presenta all’esterno come una volumetria compatta, slanciata nella forma di una tenda tesa verso il cielo, con in alto un’ampia apertura a croce, da cui piove la luce nello spazio interno. 

L’idea dell’attendamento di Dio (la “shekinah”) è familiare al mondo biblico: dalla “tenda del convegno” costruita da Mosè durante il cammino di 40 anni del popolo ebraico nel deserto (cf. Es 40,1ss), all’attendarsi del Signore nel Tempio di Gerusalemme, fino al “mettere le sue tende in mezzo a noi” del Figlio eterno (Gv 1,14).

Il messaggio veicolato è suggestivo e toccante: l’Eterno è entrato nel tempo affinché nessuno degli abitatori del tempo dovesse mai più sentirsi solo e la compagnia divina fosse di conforto, sostegno e difesa al popolo pellegrino nei secoli.

La fede ebraica confessa con assoluta certezza questa vicinanza di Dio al popolo eletto: “Ovunque vennero esiliati, la Shekinah andò con loro” (Talmud, Trattato Megillah 29a). Il cristianesimo si fonda sulla fede nell’incarnazione del Figlio eterno, mandato dal Padre a mettere la Sua tenda fra noi per amore nostro. Il risultato di quest’intuizione è un’architettura che si offre slanciata come un appello ad alzare lo sguardo, richiamo di quella “nostalgia del Totalmente Altro”, che – secondo Max Horkheimer e Theodor W. Adorno – pervade nel più profondo l’anima del nostro Occidente, ferito dalle immani tragedie del “secolo breve” (Eric Hobsbawm), il Novecento da poco concluso.

La stessa struggente nostalgia, peraltro, che dovette animare il nobile Rocco, che da ricco volle farsi povero e pellegrino per amore dei poveri, Santo cui la Chiesa di Sambuceto è dedicata. 

Non meno carico di simbolismi è l’interno, uno spazio in forma di grembo accogliente, sovrastato dalla tenda, culminante nella triplice cavità dell’abside: anche qui la lettura teologica si radica nella tradizione biblica. In ebraico il termine per indicare la misericordia è “rachamim”, espressione che designa propriamente le “viscere” materne, il grembo in cui ha inizio ogni vita.

Sul piano delle relazioni che ci fanno umani l’immagine richiama il legame originario fra chi dà vita e chi la riceve, sentimento di tenerezza profonda (cf. Sal 103,13; Ger 31,20 e Gen 43,30). La misericordia evoca l’amore viscerale, non condizionato dalla reciprocità, mosso unicamente dalla volontà di bene per l’altro: l’idea è quella di una custodia primordiale che accoglie, nutre e protegge, e di un’oscurità ospitale in cui la creatura concepita vive in simbiosi con la madre e ne riceve alimento, impulso e custodia.

Nella Chiesa di San Rocco a Sambuceto Mario Botta ha reso in maniera originale questo messaggio, situando l’assemblea liturgica in una forma spaziale ariosa e insieme avvolgente, grembo di vita che viene dall’alto a pervadere il popolo celebrante e ogni singolo fedele. 

Infine, lo spazio sacro interno all’opera di Botta in terra d’Abruzzo culmina nella triplice abside, più vasta quella centrale, di dimensioni minori, fra loro identiche e corrispondenti, quelle laterali: su di essa avevo insistito con lui, anche perché la simbolica trinitaria è evidente. Al centro il Padre, principio della vita divina, ai due lati “le mani del Padre” (Sant’Ireneo di Lione), il Figlio e lo Spirito Santo, rappresentati dalle due cavità minori alla destra e alla sinistra della cavità maggiore. Il senso è alto e profondo: la Trinità divina, mistero dell’Amante, dell’Amato e dell’Amore, uniti nell’unità essenziale del Dio che è Amore, è la meta di tutto perché di tutto è origine e custodia.

La Chiesa è popolo dei pellegrini di Dio, tesi a raggiungere questa meta verso cui avanzano e dalla quale provengono. Sulla parete absidale un cielo stellato, dove le stelle di diversa grandezza stanno a significare i credenti più o meno luminosi a seconda della loro vicinanza al Sole, che è Cristo. Nello spazio absidale l’altare, dove si compie il sacrificio dell’Amato e le relazioni delle Persone divine irrompono ad abbracciare l’umanità pellegrina nel tempo, per introdurla nella gioia della patria. Un messaggio di vita e di speranza, che la forma spaziale della Chiesa di San Rocco ben rende, e che proprio così educa il popolo fedele a riconoscersi amato, custodito e destinato alla bellezza che non avrà fine.

Nella sua architettura Mario Botta sa dirci tutto questo, forse al di là della sua stessa consapevolezza, com’è d’ogni artista, la cui opera è tanto più bella quanto più trascende colui che l’ha concepita e realizzata. E straordinaria è stata l’interlocuzione con me, pastore e teologo, ma soprattutto amico, di cui ha voluto sempre ascoltare la voce con significativa umiltà… 

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