La cessazione dell’uso liturgico non produce automaticamente la riduzione della chiesa o cappella a un edificio privo di connotati sacrali. Si aprono invece due nuovi scenari: da un lato, l’impegno nella costruzione di nuove chiese nei quartieri che si espandono nelle periferie urbane; d’altro lato, l’eventuale riallestimento dei templi dismessi dal culto
È uno dei temi più dibattuti non solo in ambito ecclesiale ma anche civile: la mutazione delle coordinate socio-religiose e persino urbanistiche ha posto sul tappeto la complessa questione della dismissione e del riuso di molti edifici di culto che spesso hanno alle spalle una storia artistica gloriosa.
Il fenomeno ovviamente coinvolge necessariamente anche il mondo degli operatori nell’ambito dell’edilizia di culto, dagli architetti agli ingegneri, dai tecnici alle stesse maestranze. Paradossalmente per loro si aprono due nuovi capitoli: da un lato, l’impegno nella costruzione di nuove chiese nei quartieri che si espandono nelle periferie urbane; d’altro lato, l’eventuale riallestimento dei templi dismessi dal culto.
Noi ora vorremmo solo fare una riflessione generale sul secondo di questi temi, tenendo conto che si tratta di un dato costante e polivalente nella storia, anche se ai nostri giorni ha acquistato un’incidenza particolare.
Infatti, l’epoca contemporanea è contrassegnata da componenti socio-culturali di grande impatto proprio nei confronti dell’edificio sacro in quanto tale. In passato, come ha dimostrato il grande storico delle religioni Mircea Eliade (1907-1986) in sede di antropologia culturale, esso era l’archetipo verso il quale si strutturava e si concentrava tutto l’orizzonte spaziale.
Suggestivo era l’aforisma giudaico che affermava: «Il mondo è come l’occhio: il mare è il bianco, la terra è l’iride, la pupilla è Gerusalemme e l’immagine in essa riflessa è il tempio».
Ora, invece, lo sviluppo edilizio crea planimetrie cittadine senza centro o policentriche; l’urbanizzazione genera metropoli che allungano i loro tentacoli in immense periferie, svuotando di residenti i centri storici; la secolarizzazione abbassa il tasso di frequenza al culto lasciando deserte le chiese; lo stesso trapasso dalla civiltà rurale a quella urbana abbatte i legami con tradizioni religiose ed etiche; il calo del clero rende spesso ardua la vitalità di un tempio che, se artistico, corre il rischio di trasformarsi – come scriveva il poeta tedesco Wilhelm Willms (1930-2002) – in «conchiglie vuote», attraversate solo da torme di turisti o visitatori estranei all’anima primigenia dell’edificio sacro.
Questi e altri dati culturali e sociali creano appunto come corollario il fenomeno della dismissione o alienazione e del susseguente riuso, non di rado sconcertante e dissonante con la realtà originaria del tempio.
Tuttavia, la cessazione dell’uso liturgico non produce automaticamente la riduzione della chiesa o cappella a un edificio privo di connotati sacrali. La questione dà origine a interrogativi e problemi rilevanti e spesso contrastanti. In essa, infatti, s’intrecciano componenti molteplici che devono essere dipanate e che possono coinvolgere anche il contributo di chi opera nel settore dell’edilizia religiosa.
Pensiamo alla qualità artistica di questi luoghi sacri che può essere di alto valore e al relativo annesso degli arredi sacri mobili. Oppure alla questione socio-culturale, perché con la dismissione le comunità cristiane perdono memorie storiche identitarie affidate a determinati edifici di culto.
Per questo, talora a battersi per il permanere dell’uso liturgico di un edificio sacro sono persino gruppi di non credenti che vedono in esso un vessillo nobile piantato in un tessuto urbano spesso trasformato e deformato.
Pensiamo anche alla rivisitazione dei piani pastorali e alla riconfigurazione delle unità parrocchiali che si esprimono proprio attraverso la liturgia, la catechesi e la stessa vita ecclesiale comunitaria connesse alle varie chiese.
E non escludiamo anche le questioni giuridiche e politiche connesse alle mutazioni legate a nuove destinazioni culturali, museali, artistiche, spirituali di chiese e cappelle.
È importante, perciò, conservare il patrimonio degli edifici sacri ma anche adattarlo e allestirlo nuovamente con coerenza alla struttura primigenia.
Certo, san Francesco nel c. 37 della Vita seconda (1246) di Tommaso da Celano esortava così i suoi frati: «Spoglia l’altare della Vergine e vendine i vari arredi, se non potrai soddisfare diversamente le esigenze di chi ha bisogno. Credimi, le sarà più caro che sia osservato il Vangelo di suo Figlio e nudo il suo altare piuttosto che vedere l’altare ornato e, invece, disprezzato il Figlio».
La relatività del tempio rispetto alla sua anima interiore, tema spesso evocato dalla Bibbia (1Re 8,27; Amos 5,5.21-25; Isaia 1,10-20; Geremia 7,20; Giovanni 4,23-24; Apoca-lisse 21,22), può ammettere una certa desacralizzazione, ma non sopporta la dissacrazione radicale.
Infatti san Francesco continuava: «Il Signore manderà poi chi possa restituire alla Madre quanto ci ha dato in prestito». Si riconosceva, così, la necessità di ricomporre questi segni di fede e di bellezza, di pietà e di memoria ecclesiale.
È, quindi, necessario su questo tema valorizzare le esperienze e le testimonianze multiculturali e multinazionali già esistenti e coniarne delle nuove, così da districare un groviglio complesso di problemi che coinvolge e talora travolge tante comunità ecclesiali.
È, comunque, anche un modo per riportare all’attenzione della riflessione teologica e dell’impegno pastorale il grande segno del tempio, espressione dell’infinito e della trascendenza divina ma pure dell’immanenza storica, culturale e spirituale del popolo credente.
Non per nulla il santuario mobile del deserto e il tempio gerosolimitano erano denominati suggestivamente nella Bibbia ’ohel mo‘ed, la «tenda del convegno», ossia dell’incontro con Dio ma anche dei fedeli tra loro. E questo può avvenire non solo nel culto ma anche nella vita culturale, ecclesiale e sociale del popolo di Dio.
Card. Gianfranco Ravasi