Sua Ecc. Mons. Enrico Solmi,
Vescovo di Parma
Assistiamo oggi alla dolorosa dismissione di tanti edifici sacri e, solo in alcuni casi, al loro riuso come luoghi destinati alla carità, alla cultura, all’aggregazione. Non mancano situazioni incresciose che vedono la Chiesa usata per altri scopi, a volte impropri.
Anche la nostra città vede numerose Chiese che, nel tempo, sono state dismesse o per le note vessazioni napoleoniche o per alienazione da parte di miei santi e venerabili predecessori.
La Chiesa di San Francesco del Prato sta compiendo il tragitto inverso: da un riuso coatto e pietoso, la spogliazione napoleonica e la riduzione a carcere, di nuovo a Chiesa aperta alla città, a tutti, officiata e con la presenza di una comunità religiosa di Frati Francescani conventuali.
Affaccia sulla stessa Chiesa di San Francesco, la Chiesa di Santa Elisabetta ora “casa del Suono” e poco distante l’Oratorio della Pace nel quale il giovane Guido Maria Conforti – poi Vescovo e fondatore dei Missionari Saveriani – avvertì la chiamata al sacerdozio. Dopo essere stata officina meccanica ora si presenta come una sorta di luogo espositivo e di eventi non meglio qualificati.
Perché questa grande eccezione di San Francesco del Prato?
Il valore artistico della Chiesa – splendido gotico emiliano – potrebbe essere una risposta, ma certamente parziale. Su di essa si innesta il valore spirituale, di fede e, conseguentemente, ecclesiale e sociale di questo percorso.
Proprio il contesto di forte secolarizzazione, anzi di post secolarizzazione con la riduzione ad un livello immanentistico di ogni espressione spirituale e il rischio di perdere lo spessore della profondità umana come fondamenta sulla quale costruire la città degli uomini, induce a questo recupero, che si auspica concluso come compimento dell’anno 2020 che vede Parma capitale della cultura.
Crediamo fortemente che cultura sia il modo di vivere di una comunità che, aperta al contributo di tutti, affonda le radici, ancora vitali, nella storia e si proietta, frondoso e carico di frutti come albero vivo, verso il futuro. Una dinamica, questa, trasversale, sia nazionale che europea ed anche parmigiana. Significa ritrovarsi attorno a fondamenti condivisi per collocarli in relazione a situazioni e sfide nuove.
Il tempo è memoria della storia dalla quale proveniamo; è il tempo presente; prospetta il tempo futuro con le scelte di oggi. Saranno, queste, l’eredità lasciata alle generazioni future.
Il patrimonio per avere una “vita buona” a Parma, in Italia, in Europa, è fatto di cose, ma ancor più di cultura, cioè di un modo di vivere, di un angolo prospettico per leggere il mondo, di criteri per intervenire e proporre, di scelte di pace, di giustizia, di bene. Di fede.
Qui si innesta la decisione operata dal Comitato Cittadino – al quale si associa la Chiesa di Parma – e della cittadinanza intera, di “riparare la Chiesa di San Francesco del Prato”.
Nel tempo passato San Francesco giunse a Parma e intorno al 1220 vennero qui i suoi da Assisi.
Nel tempo dei liberi comuni, quando la “roba” prendeva il sopravvento e il denaro alzava torri superbe, il figlio di Pietro Bernardone battezzato Giovanni, chiamato Francesco, porta la minorità anche a Parma. Prende il Vangelo come unica e integrale regola di vita. Vive e predica la penitenza che porta un messaggio universale: sollecita la persona umana alla sua vera identità, insegna che l’uomo è più importante delle cose, esorta a vivere in pace con tutti, anche con chi è “nemico” – il Saladino – e con il creato, l’ambiente. Uno stil novo attraente e credibile, al punto che i figli di San Francesco si innervano nella città e a loro sono attribuiti incarichi delicati, consegne fondamentali, sostenendo la coesione della collettività.
“Riparare” la Chiesa di San Francesco è prelevare da un tesoro di vita per reinvestirlo nel tempo presente e nel tempo futuro.
Una parte dimenticata di Parma tornerà a vivere, un capolavoro sarà di nuovo di tutti, il centro storico si estenderà “dalla parte della Chiesa di San Francesco”, come diceva fra Salimbene da Parma, celebre cronista, che qui diventò francescano.
Può disegnare un modo di vivere che raccoglie la storia gloriosa di una città – quante sepolture! – che non ha paura di confrontarsi con la periferia più periferica che qui è al centro dell’urbe: il carcere, concentrato di dolore, del male inferto e punito, ma anche di rinascita e di riscatto attraverso l’aiuto dei buoni, quali la beata Anna Maria Adorni e padre Lino da Maupas. È lo stesso carcere dove Giovanni Guareschi fu imprigionato.
Queste ragioni si intrecciano felicemente con la minorità maestosa di questa Chiesa Francescana – ricordiamo ancora che qui il Serafico è passato! – , con l’umile ardimento delle sue volte che hanno resistito alle intemperie e ai terremoti e hanno visto passare la storia come chi vi partecipa – le cicatrici del carcere e i segni delle tombe nobiliari – guardandola dall’alto, mai con compatimento sufficiente, ma con la partecipazione di chi la pone nella prospettiva di quel fine di Bene che, nonostante tutto e tutti, persegue.
I lavori per la riapertura rappresentano quasi un miracolo, considerando le gravi difficoltà che si erano frapposte, e vedono la condivisione di una città, espressa da un qualificato e rappresentativo Comitato, ma ancor più dall’interesse popolare che sta crescendo. Interesse che pare estendersi anche fuori Parma, se annotiamo le visite di tanti extra parmigiani.
Arte, fede, vita ecclesiale e sociale vogliono costituire un tutt’uno nel ridare vita a San Francesco del Prato, ma soprattutto per ridare fondamento e speranza ad una città che tanto li necessita. Questa, alla fine, è la vera sfida, alla quale partecipa la riapertura della Chiesa di San Francesco del Prato.