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La notte di Santo Stefano

S.E. Mons Antonino Raspanti

Quella notte ero inspiegabilmente insonne, seppur stanco per le fatiche del Natale appena terminato, quando improvvisamente il boato cupo che ormai riconosco (da bambino dal 1968 nella Valle del Belice ho vissuto tanti terremoti) diede avvio a un violento e lungo scotimento del letto e del palazzo vescovile
Erano le 3:19; un quarto d’ora dopo mi chiamò don Mirco, parroco di Pennisi, dicendomi che era scampato alla perforazione del tetto della canonica, essendo crollato l’attiguo campanile della chiesa.

Attesi qualche minuto e mi recai da lui, incontrando lungo la via centinaia di persone in preda al disorientamento o chiuse in un silenzio angosciato. Oggi, quando sono ancora in corso le verifiche tecniche degli enti preposti, dalla Protezione Civile ai Vigili del Fuoco, dalla Soprintendenza al Genio Civile e ai Comuni, mi ritrovo con cinquanta chiese chiuse, perché danneggiate nelle strutture o nelle decorazioni, in modo più o meno grave. In ogni caso, abbiamo un danno stimato in molti milioni di euro e una penosa, allarmante dispersione delle comunità cristiane, ma anche di vaste fette della società civile. Vengono a mancare, come in altri territori colpiti dal sisma, i luoghi e gli edifici nei quali la comunità si identifica, esprime e ritrova il senso del vivere e del con-vivere. Come è accaduto a tanti altri parroci e vescovi nelle calamità naturali, ho raccolto il racconto greve di chi con il crollo di un campanile o con la chiusura di una chiesa ha visto spezzata bruscamente l’abitudine di abitare una casa sentita tanto familiare quanto la propria e … “Chissà quando si riaprirà? Noi anziani non la vedremo più!”.

I dibattiti e le domande si accavallano. Brucia troppo aver riaperto, in alcuni casi solo pochi anni fa, l’edificio di culto, dopo lunghissime attese (dieci o quindici anni) per la ricostruzione, e adesso tornare a celebrare in un asilo comunale o nel teatrino dell’oratorio (nel migliore dei casi). Si riaprono le ferite del 1984 e del 2002, come ritornano le medesime lesioni negli stessi punti degli edifici, già restaurati con notevole dispendio di risorse, pubbliche e private. Ovviamente, identico discorso vale per le scuole e le abitazioni private, con le migliaia di schede già compilate, gli inevitabili sfollati in grande disagio e, forse, qualche profittatore. Le discussioni nei costituiti comitati territoriali come pure tra la gente per le strade vertono intorno alle faglie sotterranee e alla complessità del sottosuolo del nostro territorio.

Il caso probabilmente è unico in Italia e in Europa: quello di un grande, antico vulcano, attivo e posto sul limite di gigantesche piattaforme continentali che qui si congiungono e si scontrano. È circolata voce, subito respinta dagli abitanti, sulla necessità di spostare il sito delle strutture e delle abitazioni, proprio per i ricorrenti fenomeni sismici provocati da un sottosuolo così frastagliato e pressato da forze immani. Se fosse necessario intendere quanto un complesso parrocchiale sia frutto della sinergia di tante persone e tanti fattori, allora in questi casi ciò è gridato in modo assordante. Sia nel costruirlo sia nel condurlo, come nel restaurarlo o nel ricostruirlo, un complesso parrocchiale costituisce un intreccio di capacità tecniche e artistiche, ma anche di sentimenti, di affetti, di attese, di ricordi, in una parola, è frutto e sintesi di una partecipazione corale.

In casi come il nostro l’aprirsi di una ferita nelle mura raffigura ed esprime la ferita nelle relazioni sociali e nel cuore delle persone. Sia le organizzazioni pubbliche sia quelle del volontariato cattolico e laico si sono subito attivate per provare a rimarginare queste ferite, a partire da quelle psicoaffettive. Rimangono gli sforzi più grandi da compiere, la ricostruzione della muratura, dinanzi alla quale rimaniamo schiacciati per la carenza di mezzi economici.

Nella speranza che anche questi mezzi arrivino o si producano in qualche modo, comprendiamo la necessità di un lavoro più approfondito. Sarebbe sognare se pensassimo a informare e formare meglio la comunità, perché comprenda più a fondo come meglio progettare gli spazi per guardare più serenamente al futuro? Con gli sviluppi tecnologici e scientifici odierni, è impensabile che i nostri territori possano essere abitati in modo più sicuro e moderno? Forse è data l’occasione a noi pastori come alle guide degli altri enti pubblici e privati di suscitare una nuova sensibilità nelle modalità di abitare territori “ballerini”come quello etneo. Non sarebbero di aiuto in questo gli enti di ricerca, gli ordini professionali e le aziende produttrici in vari settori?

S.E. Mons. Antonino Raspanti Vescovo di Acireale e Vicepresidente Conferenza Episcopale Italiana (CEI)

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