Adeguamento liturgico delle chiese costruite prima del Concilio: tema attuale ed esperienza viva nella comunità ecclesiale
Don Luca Franceschini
Non vi è dubbio che nel vissuto del Popolo di Dio il più importante cambiamento e l’esperienza più diretta del Concilio Vaticano II fu la riforma della Liturgia. Non a caso il primo documento emanato fu Sacrosanctum Concilium con l’intento di un rinnovamento di tutta la vita della Chiesa e la promozione di una partecipazione più attiva, consapevole e piena del Popolo cristiano a quello che di tutta la vita cristiana è il fulcro: la Liturgia.
Credo di non sbagliare se dico che nel sentire popolare furono due le principali novità percepite: l’uso della lingua italiana e il cambiamento della direzione del celebrante all’altare rivolto “verso il popolo”.
Tuttavia oso dire che questi furono due aspetti marginali della riforma che fu innanzitutto un enorme ripensamento dei testi, recuperando molto del patrimonio patristico e della Liturgia antica, accompagnato da una maggiore attenzione alla centralità della Parola di Dio nonché da una sottolineatura dei vari momenti del rito e dei vari ministeri che in esso si esprimono.
L’edizione e l’uso nella Liturgia eucaristica del Lezionario – con una più ampia presenza di letture e l’introduzione della lettura dell’Antico Testamento – e del libro dei Vangeli con i relativi ministeri esercitati dal lettore e dal diacono, non più accentrando sul celebrante presbitero tutti i riti, conducono naturalmente ad individuare spazi diversificati dal solo altare. Il presbitero presiede ora la Liturgia iniziale e penitenziale dalla sede dove siede in ascolto delle letture e resta in piedi per il Vangelo – quando questo viene proclamato dal diacono -, portandosi all’altare solo terminata la liturgia della Parola per la proclamazione della quale viene reintrodotto, dopo secoli di assenza, l’ambone.
Non propongo uno studio scientifico né statistico ma semplicemente parto da un’osservazione di centinaia di chiese che ho avuto modo di visitare in particolare in Toscana.
Credo di non allontanarmi troppo dalla verità nel dire che c’è stata un’evoluzione nella modalità di proporre la riforma all’interno delle chiese in particolare per quanto riguarda l’altare.
Alcuni primi tentativi, per fortuna numericamente non preponderanti, si orientarono nel modificare l’altare tridentino staccandone la mensa in modo da consentire di girarvi attorno e celebrare rivolti verso il popolo; parallelamente fu adottata la modalità del riuso di parti esistenti nei magazzini – a volte anche artisticamente interessanti – per creare i nuovi arredi e il supporto per la mensa o per il leggio/ambone. In molti casi furono reimpiegate colonnine delle balaustre, talvolta addirittura dei candelieri. Tra i ri-usi per l’altare il più semplice fu quello del paliotto che precedentemente veniva messo dinnanzi all’altare tridentino e poteva ora servire come frontale del nuovo altare; alla bellezza e ricchezza del frontale corrispondeva purtroppo un mero supporto di poco pregio e valore artistico.
La maggior parte di questi interventi nel tempo è stata rivista e semplificata lasciando tuttavia la tentazione di proporre l’altare come opera artistica frontale, talvolta piuttosto larga rispetto alla profondità, bella davanti ma insignificante negli altri lati.
Una fase successiva mi piace definirla come “soft” nel tentativo di un inserimento artisticamente più forte e connotato di maggiore dignità ma possibilmente in “stile” con l’esistente, copiando qualche forma stilistica magari dell’altare antico.
In alternativa l’intervento poteva essere il meno invasivo possibile con l’utilizzo di arredi di impatto neutro o poco visibili: un plinto centrale, delle colonnine ai lati, che lasciassero nel miglior modo trasparire la bellezza del preesistente.
Non mi soffermo ora sull’ambone, nella maggior parte dei casi un leggio anche quando fu realizzato in scultura e in modo stabile, né sulla sede.
Quello che pare evidente è che nella maggior parte dei nostri edifici di culto è stato realizzato un adeguamento liturgico che non si presenta come definitivo – per quanto tutto è sempre reformabile – né soprattutto come espressione di una progettazione liturgica, architettonica e artistica che racconti qualcosa del nostro tempo. Sembra che quel dialogo col mondo contemporaneo, tanto desiderato dal Concilio, e quel confronto fruttuoso con gli artisti del nostro tempo, auspicato da San Paolo VI, non si siano realizzati appieno.
D’altra parte anche il dialogo all’interno della comunità ecclesiale non è semplice, vittima di estremizzazioni e forse di paure, di “corse in avanti” di alcuni che lasciando indietro la comunità e di repentine frenate indotte dal timore e dalla reazione a estremizzazioni e, talvolta, ad abusi.
L’altare come luogo di scontro tra chi lo vorrebbe mensa e quindi più simile alla tavola della nostra sala da pranzo e chi ara del sacrificio di Cristo come se di questa fosse unico esempio l’altare tridentino.
L’altare non è un pezzo di questo o di quell’aspetto di Gesù: esso è Cristo stesso attorno al quale si raduna una comunità convocata al “banchetto di nozze dell’Agnello” a celebrare il memoriale della sua passione-morte-risurrezione.
Su questo importante tema dell’adeguamento liturgico nei miei pochi mesi da direttore dell’Ufficio nazionale per beni culturali e l’edilizia di culto ho vissuto una preziosa esperienza; in particolare come membro delle giurie nei concorsi ho visto quanto sia fruttuoso il mettersi a confronto di diversi gruppi di lavoro con proposte differenti, di quanto sia positivo che ogni progetto presentato sia realizzato non da un artista, non dall’idea di un singolo ma dal dialogo tra un architetto, un liturgista e un artista posti anch’essi in dialogo con una comunità che vive e celebra la sua fede. È e rimane quest’ultima la vera sfida di dialogo: quello all’interno della Chiesa.
Solo una esperienza di crescita della comunità ecclesiale in ascolto della Parola del Signore, della tradizione, del magistero in modo sereno e costruttivo, senza paure e pregiudizi, può produrre una vera riforma liturgica e un adeguamento dell’intera Chiesa, che si esprime poi in ciò che celebra, alla volontà di Dio in questo tempo della storia.
La Chiesa può essere e deve essere un committente illuminato per gli artisti e consentire il fiorire del loro genio perché sia al servizio di una sempre nuova bellezza, della narrazione del dramma del nostro mondo, del canto della speranza che viene dal Vangelo.
Non posso dimenticare le esperienze vissute grazie alla sensibilità del nostro vescovo emerito, Mons. Giovanni Santucci, nel dialogo con i giovani artisti dell’Accademia di Belle Arti di Carrara. La loro voglia di capire, il loro mettersi in gioco quando posti dinnanzi ad un interlocutore disponibile e aperto, la loro creatività libera, anche da pregiudizi, ha prodotto frutti inaspettati e di alto livello artistico, umano e di fede.
Il cantiere degli adeguamenti nelle chiese storiche, dunque, è del tutto aperto con le provocazioni e le sfide che porta con sé.
Nel 1970 la Congregazione per il Culto Divino offriva alcune indicazioni nella traccia stabilita dal Concilio e da Papa Paolo VI che lasciavano trasparire atteggiamenti e contraddizioni che ancora non sono superati. Mentre non mancavano quanti contrapponevano la semplicità alla bellezza e sontuosità, veniva sottolineato che questo “non ha alcun rapporto con quella che viene chiamata desacralizzazione e non intende in alcun modo sostenere il fenomeno della secolarizzazione del mondo. Di conseguenza i riti devono conservare la loro dignità, spirito di riverenza e carattere sacro”.
Allora come oggi veniva promossa la stabilità degli adeguamenti liturgici assieme al dialogo costruttivo a livelli diversi:
“… Attraverso la collaborazione delle Commissioni diocesane sulla liturgia e sull’arte sacra e, se necessario, consultando esperti o anche autorità civili, si dovrebbe procedere a un completo riesame dei progetti per le nuove costruzioni e degli adeguamenti esistenti. L’obiettivo è garantire una sistemazione fissa in tutte le chiese che conserveranno monumenti antichi ove necessario e nella misura più ampia possibile soddisfino le nuove esigenze.”
Sebbene siano trascorsi ormai 52 anni dalle indicazioni del 1970, possiamo dire che il cammino non è affatto concluso.
Come dicevo in un mio intervento ad un recente convegno resto convinto che, se anche nella maggioranza delle chiese si è provveduto ad un ripensamento del presbiterio, gli interventi realizzati, in linea di massima, non hanno raggiunto il criterio della stabilità e, almeno con il nostro sguardo di oggi, non sono da ritenersi come ripensamenti armonici e pienamente riusciti dei principi di adeguamento.
Vorrei concludere con un pensiero di papa Francesco rivolto ai partecipanti alla 68° Settimana Liturgica, tenutasi a Roma nel 2017:
“C’è ancora da lavorare in questa direzione, in particolare riscoprendo i motivi delle decisioni compiute con la riforma liturgica, superando letture infondate e superficiali, ricezioni parziali e prassi che la sfigurano. Non si tratta di ripensare la riforma rivedendone le scelte, quanto di conoscerne meglio le ragioni sottese, anche tramite la documentazione storica, come di interiorizzarne i principi ispiratori e di osservare la disciplina che la regola.”