La testimonianza di S.Em. Cardinale Gianfranco Ravasi per i 30 anni di Chiesa oggi
Card. Gianfranco Ravasi
Per trent’anni la rivista Chiesa Oggi è stata un punto di riferimento nella rappresentazione degli edifici sacri nella loro evoluzione in dialogo con l’architettura e l’arte contemporanea.
La documentazione, affidata sempre ad analisi e anche a immagini emblematiche di forte impatto, ha permesso non solo all’ambito ecclesiale di conoscere la ricchezza delle esperienze, ma ha aperto anche al mondo artistico e socio-culturale generale l’ingresso in un orizzonte di grande interesse.
A questo punto vorremmo formulare l’augurio per un nuovo itinerario futuro attraverso una riflessione generale tematica. Essa ribadisce elementi ben noti che hanno guidato la programmazione della rivista e che possono essere sempre di stimolo per gli operatori ma anche per la stessa comunità ecclesiale.
Partiremo da un antico aforisma della tradizione giudaica: «Il mondo è come l’occhio: il mare è il bianco, la terra è l’iride, Gerusalemme è la pupilla e l’immagine in essa riflessa è il tempio». Il detto illustra in modo nitido e simbolico la funzione nel tempio secondo un’intuizione che è primordiale e universale.
Due sono le idee che sottendono all’immagine. La prima è quella di «centro» che il luogo sacro deve rappresentare: l’orizzonte esteriore, con la sua frammentazione e con le sue tensioni, converge e si placa in un’area che per la sua purezza deve incarnare il senso, il cuore, l’ordine dell’essere intero.
Nel tempio, dunque, si «con-centra» la molteplicità della realtà e della vita che trova in esso pace e armonia: si pensi solo alla planimetria di certe città a radiali connesse al «sole» ideale rappresentato dalla cattedrale posta nel cardine centrale urbano (Milano ne è un esempio evidente col Duomo, come New York è la testimonianza di una diversa visione, più dispersa e babelica).
Dal tempio, poi, si «de-centra» un respiro di vita, di santità, di illuminazione che dovrebbe trasfigurare il quotidiano e la pianta generale della città.
È a questo punto che entra in scena il secondo tema sotteso al detto giudaico che abbiamo evocato: il tempio è l’immagine che la pupilla riflette e rivela. Esso è, quindi – attraverso la luce e i colori – un segno di bellezza. In questo senso un’architettura sacra che non sappia dialogare con la natura circostante, che non riesca a usare in modo “splendido” il linguaggio della luce attraverso le finestre e le vetrate e che non sia portatrice di armonia, decade paradossalmente dalla sua funzione, diventa «profana» e «profanata».
È dall’incrocio dei due elementi, la centralità e la bellezza, che sboccia quello che il grande architetto francese, autore della mirabile chiesa di Ronchamp, Le Corbusier, definiva in modo folgorante «lo spazio indicibile», lo spazio autenticamente santo e spirituale, sacro e mistico.
Certo, questi due assi portanti trascinano con sé tanti corollari: pensiamo alla «sordità», all’inospitalità, alla dispersione, all’opacità di tante chiese tirate su senza badare alla voce e al silenzio, alla liturgia e all’assemblea, alla visione e all’ascolto. Chiese nelle quali ci si trova sperduti come in una sala per congressi, distratti come in un palazzetto dello sport, schiacciati come in un’arena, abbrutiti come in una casa pretenziosa e volgare.
È noto che nel dialogo tra arte e fede in questi ultimi tempi si è purtroppo consumato una sorta di divorzio. Da un lato, in ambito ecclesiale si è spesso ricorsi al ricalco di moduli, di stili e di generi di epoche precedenti, oppure ci si è orientati all’adozione del più semplice artigianato o, peggio, ci si è adattati alla bruttezza che imperversa in molti nuovi quartieri urbani e nell’edilizia aggressiva innalzando edifici sacri simili, come sarcasticamente diceva p. David M.
Turoldo, a garage sacrali ove è parcheggiato Dio e vengono allineati i fedeli.
D’altro lato, però, anche l’arte ha imboccato le vie della città secolare, archiviando i templi, i temi religiosi, i simboli, le narrazioni, le figure bibliche e religiose. Ha abbandonato come pericolosa ogni proposta di un messaggio, considerandolo un capestro ideologico, si è consacrata a esercizi stilistici sempre più elaborati e provocatori, si è affidata a una critica incomprensibile ai più, e si è asservita alle mode e alle esigenze di un mercato non di rado artificioso ed eccessivo.
Bisognerebbe ritornare all’idea che arte e fede sono idealmente sorelle fra loro, volendo entrambe cercare
– come diceva il grande pittore Paul Klee per l’arte – «non il puro e semplice visibile ma l’Invisibile che è nel visibile».
Certo, complesso è questo legame tra arte e liturgia. Tuttavia il percorso compiuto è già molto avanzato per quanto riguarda l’architettura, come attesta l’intera collezione della rivista. È significativo che quasi tutte le cosiddette «archistar» hanno realizzato almeno un tempio, così come nei vari ambiti locali è vivo l’impegno a edificare nuove chiese che uniscano in sé fede e bellezza. Purtroppo in questi ultimi tempi si è aperto anche il capitolo molto delicato e complesso della dismissione e del riuso di templi non più necessari al culto a causa del mutamento delle strutture urbane e sociali. Si tratta di un tema che dovrà essere attentamente affrontato.
A tutto questo aggiungiamo un’appendice specifica. È importante impegnarsi anche a trasfigurare coi nuovi modelli artistici l’intero arredo liturgico interno alle chiese, un arredo (altare, statue, dipinti, amboni, tabernacoli etc.) che sia di qualità estetica, così da poter compiere quello che auspicava uno dei maggiori teologi ortodossi del Novecento, Pavel N. Evdokimov (1901-1970), quando scriveva: «Le forme architettoniche di un tempio, gli affreschi, le icone, gli oggetti di culto non sono mai riuniti come se fossero esposti in un museo; come le membra vive di un corpo, essi sono pervasi da una stessa vita misteriosa, immersi in un unico canto di lode».