Se invece ti concentri anche solo per un istante sul fatto che anche tu appartieni a una enorme moltitudine dell’umano in movimento incessante verso una destinazione solidale, non ti si riapre anche il Cielo? (P. Sequeri)
Ogni percorso è un nuovo inizio.
Ogni inizio porta con sé contesti, vissuti, persone, caratteri, auspici diversi. Niente è mai uguale (o quasi) a ciò che è già stato fatto.
Se lo scopo di questi percorsi è sempre il medesimo, ovvero realizzare una nuova chiesa o un nuovo complesso parrocchiale condividendo con la comunità un cammino di discernimento che, da un lato, ascolti i bisogni sottesi all’esigenza e, dall’altro, aumenti nella comunità la consapevolezza che il progetto, lo specifico progetto per quella chiesa o quel complesso parrocchiale, vive nel e del nostro tempo, con tutto ciò che questo comporta ogni cammino è sempre diverso.
Giunto alla quarta esperienza sul campo, cominciata con il secondo CLI-LAB -laboratorio in preparazione al Convegno liturgico nazionale tenuto al Monastero di Bose nel 2017- continuo a sorprendermi dinanzi al bagno di umanità che ogni percorso porta con sè, riuscendo a stupire, a vivificare, a dare luce alla sensibilità e alla fragilità che ogni volta mi accompagnano.
Al centro la necessità di non ridurre il tutto al mero soddisfacimento di un bisogno tecnico o funzionale, a una sommatoria di problemi da risolvere, ma possa essere letto come tassello di un Disegno più grande, riconducendo il costruire una chiesa alla sua dimensione ecclesiologica tenendo conto del fatto che con la comunità, quella comunità, si compie solo un breve tratto di un cammino più ampio che, cominciato prima senza di noi, senza di noi proseguirà.
Mettere la propria professionalità dentro queste situazioni deve allora fare i conti con la possibilità di provare a seminare qualcosa, senza prevaricare, auspicando di lasciare qualcosa dietro di sé. Non imporre, non indurre, non forzare ma aiutare a comprendere che per lasciarsi stupire dai risultati bisogna guardare alle cose con occhi diversi, diventando buoni ascoltatori e solo così «esploratori di mondi possibili».
Solo a partire da queste premesse-promesse parlare del ruolo dell’architettura ritrova un significato divenendo promessa di bellezza e autenticità. Altrimenti è pura autoreferenzialità.
L’esperienza di Nogara, commissionata direttamente dalla Diocesi di Verona, è stata sintesi di tutto questo e, sullo sfondo delle esperienze precedenti, è stata cucita in maniera sartoriale a partire da una lettura -parziale, forse empirica, forse limitata- del caso specifico.
Questo percorso è stato per me, nuovamente, un esperimento, una prova di vita, preceduto, simbolicamente, da un’esperienza avvenuta in tempi non sospetti quando, entrato nella Cattedrale veronese, ero rimasto colpito da due tra le potenti iscrizioni che ne ornano il pavimento.
La prima, dinanzi all’ingresso, recita In patientia vestra possidebitis animas vestras mentre la seconda, in corrispondenza, del brevissimo transetto, Non contemplantibus nobis quae videntur sed quae non videntur.
Due richiami a guardare oltre, a guardare in alto, all’Alto, superando la piccolezza dei nostri minimi personalismi e l’immediatezza, contingente, delle loro esigenze.
A Nogara, una chiesa relativamente recente, possente, alta, maestosa, quanto fragile e delicata necessita attenzioni.
È stata fatta una scelta, dolorosa, quella di demolirla per lasciare spazio ad un nuovo edificio di culto.
A maglie intrecciate Comunità, Parrocchia, Diocesi hanno collaborato per strutturare un percorso che fosse tanto di ascolto quanto di formazione e informazione per aumentare la consapevolezza, coinvolgendo la comunità civile.
Gli incontri hanno aiutato a comprendere cinque indirizzi da seguire (ogni percorso è diverso dall’altro, no?):
• Nel progettare la nuova chiesa non si partiva da un “foglio bianco”, si partiva dalla storia della preesistente. Una storia fatta di sacrifici, di volti, di nomi che hanno contribuito col poco che avevano, come la vedova del Vangelo di Marco, a erigere la chiesa del proprio paese. Recuperare alcuni elementi di questa chiesa poteva diventare un elemento testimoniale di raccordo tra passato e futuro a testimonianza e rendimento di grazie.
• La comunità aveva ben chiara la sua identità di assemblea celebrante e la necessità di uno spazio che permettesse di radunarsi attorno all’altare in una configurazione che, ad un tempo, aiutasse la dimensione comunitaria dei riti quanto la preghiera personale: l’atmosfera dello spazio liturgico non è qualcosa di indifferente.
• Ridimensionare, ridurre non sempre è una perdita. Un edificio più piccolo apre nuove prospettive. In particolare, in questo caso permette di guadagnare spazio aperto, spazio prezioso per le attività parrocchiali. Attività aperte alla collettività, a tutti. Ecco dunque una possibilità per ampliare la proposta che la Chiesa fa alla comunità, non solo quella che frequenta facendosi davvero “Chiesa in uscita”. Ma non solo: ritrovare nella generosità -nella sovrabbondanza- dello spazio aperto quella generosità della Chiesa al contesto, che si fa segno nel tessuto urbano, segno orizzontale che completerà l’auspicata presenza verticale del campanile in forme e modi diversi.
• Costruire è scegliere l’orizzonte in cui porsi. L’impronta ecologica che l’uomo imprime sul pianeta non è solo questione scientifica ma, come dice papa Francesco «dal momento che tutto è intimamente relazionato e che gli attuali problemi richiedono uno sguardo che tenga conto di tutti gli aspetti della crisi mondiale, [è necessario] soffermarci adesso a riflettere sui diversi elementi di una ecologia integrale, che comprenda chiaramente le dimensioni umane e sociali» e che quindi consideri l’architettura, la sua concezione, costruzione, gestione come fatto correlato a tali questioni.
• Riflettere sulla nuova chiesa ha introdotto riflessioni contestuali più ampie che hanno esteso il ragionamento al tessuto urbano e al paesaggio circostante tratteggiando possibili spunti di ragionamento offerti all’Amministrazione comunale per future trasformazioni e ricomposizioni territoriali e urbane.
Di qui il dialogo con la comunità civile, il dibattito con chi forse, del tutto, non era d’accordo, il confronto tra le parti fino all’elaborazione dei documenti di concorso e la scelta di una consultazione ad inviti aperta a sei progettisti -associati a liturgisti e artisti– di provenienza e estrazione diversa con l’assunzione di un rischio aprendosi anche a soggetti che non avevano all’attivo progetti di edifici di culto (del resto da qualche parte bisogna pur cominciare). A tutti i concorrenti è stato chiesto un modello tridimensionale che ha molto aiutato la comprensione delle proposte oltre al consueto video richiesto abitualmente nei concorsi per nuove chiese parrocchiali.
La valorizzazione del portato della comunità, di una comunità viva e vivace (alla prima assemblea comunitaria eravamo quasi 180, non pochi direi) si è tradotta anche nella scelta di una procedura peculiare di valutazione delle proposte.
È stata istituita una commissione tecnica che ha lavorato in un clima di grande serenità e armonia interna. Un clima di confronto, di rispetto, di dialogo che ha favorito l’espressione di ognuno.
I criteri su cui la commissione tecnica ha espresso i propri giudizi, individuati da bando, sono stati: inserimento urbano dell’intervento e qualità degli spazi aperti; linguaggio e carattere architettonico dell’edificio sacro; qualità complessiva della spazialità interna; impianto liturgico e funzionalità distributiva; programma iconografico, opere d’arte e integrazione elementi esistenti; scelte costruttive, materiali, tecniche, soluzioni ecosostenibili e fattibilità realizzativa; soluzioni impiantistiche; coerenza tra proposta progettuale e quadro economico.
Ma è stata istituita anche una commissione parrocchiale formata da 20 membri scelti dal Parroco tra coloro che hanno preso attivamente parte al percorso, unitamente ad una rappresentanza della comunità civile. In maniera estremamente professionale e responsabile chi ha partecipato a questa esperienza ha assunto il proprio compito con dedizione e serietà: divisi in tre gruppi di lavoro organizzati su base casuale, i commissari hanno analizzato le sei proposte a partire da tre categorie interpretative (inserimento urbano e linguaggio architettonico, qualità degli spazi aperti e rapporto con il preesistente complesso parrocchiale, interno dell’aula liturgica e opere d’arte) individuando per ciascuna categoria punti di forza e di debolezza che sono stati sintetizzati in un commento consegnato, in busta chiusa, alla commissione tecnica che ne ha preso visione dopo una prima analisi delle proposte candidate.
L’esito ha determinato l’assegnazione del primo premio al gruppo coordinato da Massimo Lepore, Raul Pantaleo, Simone Sfriso (Tamassociati) supportati dal liturgista Alessandro Toniolo e dall’artista Marcello Chiarenza.
Gli altri gruppi partecipanti erano coordinati dagli architetti Fabrizio Rossi Prodi, Alberto Lancini, Fabrizio Barozzi-Barozzi Veiga, Edoardo Milesi-Archos e Maria Alessandra Segantini-C+S Architects.
Il progetto vincitore evolverà perché il percorso partecipativo cominciato ben prima dell’entrata in scena di chi scrive, con la scelta referendaria circa l’opportunità del recupero o della demo-ricostruzione della chiesa esistente, proseguirà in un costante scambio di affinamento e approfondimento della soluzione scelta.
Ne vedremo i frutti, per ora importano le premesse. Noi che facciamo questo lavoro preliminare, istruttorio, stiamo sullo sfondo, dietro le quinte -quasi come ombre, mi è capitato di dire in una ilare situazione nogarese- a servizio di una gioia che è, e deve essere, più grande.
Per approfondire leggi l’articolo : Il progetto vincitore del concorso per il nuovo complesso parrocchiale di Nogara (VR)